Aversa. Lunedì sera al Cimarosa lo spettacolo di Antonio Iavazzo “Matricola Zero Zero Uno”, ispirato al libro di Nicola Graziano e Nicola Baldieri

Aversa      Fa tappa al Teatro Cimarosa di Aversa lo spettacolo “Matricola Zero Zero Uno”  del regista Antonio Iavazzo, liberamente ispirato all’omonima opera del magistrato Nicola Graziano con foto di Nicola Baldieri. Il giudice aversano ha curato anche la consulenza letteraria dello spettacolo che ha per protagonisti gli attori Giovanni Arciprete, Luigi De Sanctis, Claudia Orsino e Angelo Rotunno. Chiara Russo invece si occupa di assistenza alla regia mentre Elpidio Iorio è il responsabile della produzione. Questo spettacolo, che ha debuttato, in anteprima nazionale, e con grandissimo successo, di pubblico e critica, al Teatro Lendi di Sant’Arpino (CE) nella ventesima edizione della prestigiosa rassegna nazionale “PulciNellaMente”, si avvale del patrocinio del Comune di Aversa, ed in particolare dell’assessorato alla cultura retto da Alfonso Oliva. Come si diceva, è la trasposizione teatrale del libro “Matricola Zero Zero Uno” (ed. Giapeto 2017) che narra l’esperienza vissuta da Graziano il quale attraverso un permesso speciale si fa internare (sotto mentite spoglie) nell’OPG di Aversa, con la matricola Zero Zero Uno, per raccontare la Follia dietro le sbarre e la vita di chi è fuori dalla società. Quel ricovero volontario del magistrato, particolarmente attento ai diritti umani, è diventato un libro con terribili storie e molte immagini, scattate dal fotoreporter Nicola Baldieri. Antonio Iavazzo ha svolto un compito per nulla facile che lui stesso racconta: “Quando l’autore mi ha chiesto di rendere “verticale” la sua opera, oltre all’oggettiva difficoltà di traslazione, mi si è subito evidenziata la necessità e anche oserei dire “l’urgenza”, di evitare luoghi comuni, dogmatismo e prassi quotidiane in relazione alla salute mentale. Così come mi era chiaro l’imperativo di non cadere in facili suggestioni pietistiche e in un moralismo da cronaca spicciola. Il testo meritava altro. Il lavoro con gli attori, quindi, è stato quello di farne una versione estremamente poetica e sospesa”. “Nel nostro “manicomio” – aggiunge il regista - non ci sono grida, urla, aggressioni o altri cliché del disagio psichico. Ci sono struggenti richiami musicali, immagini dell’inconscio, rimandi a vite che forse, e dico forse, aspiravano ad altre compiutezze. Utilizzando alcune tracce dell’io narrante, in un climax “beckettiano”, intercalate da citazioni letterarie, si snodano piccole storie, rituali innocenti, danze volutamente goffe, reiterazioni da “giorni senza tempo”. Qui il dolore, che pure appare, assume i contorni e il valore di un “tutti dentro” e nella gestalt perseguita il segno poetico che abbiamo voluto dare allo spettacolo lo fa sbiadire nel gioco infinito della stessa follia”.
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